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Referendum sul Jobs Act: si decide il futuro dei diritti dei lavoratori in Italia

Il referendum del 9 giugno mira ad abrogare parti del Jobs Act, con l’obiettivo di ripristinare diritti dei lavoratori e affrontare la stagnazione salariale e le disuguaglianze nel mercato del lavoro.

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Referendum sul Jobs Act: si decide il futuro dei diritti dei lavoratori in Italia - Movitaliasovrana.it

Una delle elezioni più significative del weekend dell’8 e 9 giugno riguarda il referendum sull’abrogazione di una parte fondamentale del Jobs Act, in particolare quella che elimina il diritto al reintegro. Giuristi e analisti sostengono che, seppur con questa modifica, non si tornerà alle regole della legge sul lavoro del 1970, ma aumenteranno le tutele per i lavoratori. Alcuni punti controversi della riforma di Renzi sono stati già dichiarati incostituzionali dalla magistratura. Ma perché votare per eliminare quel che rimane della normativa attuale? Di seguito, esploriamo le motivazioni sociologiche ed economiche che stanno alla base di questa scelta.

Il contesto sociale: i salari stagnanti

L’attuale crisi sociale in Italia si riflette chiaramente nella stagnazione dei salari, un fenomeno evidenziato anche da Mario Draghi nel suo intervento al recente vertice della Fondazione COTEC. In un contesto in cui le retribuzioni non solo non crescono, ma aumentano a un ritmo inferiore alla produttività, i lavoratori si trovano in una posizione di svantaggio. Ad esempio, i tassi di disoccupazione in calo non sono accompagnati da un significativo aumento dei redditi da lavoro, creando una disparità tra segnali di recupero economico e la vita quotidiana dei cittadini.

Quando i salari non aumentano, i profitti e le rendite tendono a salire. Questo squilibrio porta alla conseguenza negativa di una domanda aggregata insufficiente, con un impatto diretto sull’economia. Draghi non ha approfondito ulteriormente la sua analisi, ma il legame tra salari stagnanti e una spesa debolmente sostenuta appare evidente. Benché la soluzione avanzata dal governo sia quella di aumentare la spesa militare, si potrebbe considerare, come alternativa più vantaggiosa, un innalzamento delle retribuzioni. L’economia potrebbe trarne benefici più immediati e sostenibili.

Il Jobs Act, attuato a partire dal marzo 2015, ha accentuato la subalternità dei lavoratori nei confronti dei datori di lavoro, poiché ha reso il licenziamento più semplice e meno costoso per le aziende. Questa situazione ha portato a un indebolimento dei diritti dei lavoratori e, di conseguenza, ha limitato le possibilità di contrattazione collettiva da parte dei sindacati. Ripristinare certe garanzie ai lavoratori potrebbe rappresentare un passo fondamentale per riequilibrare le forze in gioco.

L’inefficacia del liberismo: un mito da sfatare

La seconda motivazione fondamentale per votare a favore dell’abrogazione risiede nella crisi del liberismo e del suo mito che sostiene che la facilità di licenziamento generi nuove assunzioni. Statistiche dimostrano che l’occupazione non è aumentata in modo significativo a causa delle riforme introdotte. Anche se il numero degli occupati in Italia ha raggiunto un massimo storico, il parallelo con altri paesi come Francia, Germania e Stati Uniti rende chiaro che questa crescita non è direttamente attribuibile al Jobs Act.

Anzi, gran parte dei nuovi posti di lavoro creati appartengono al settore dei servizi e presentano contratti precari con salari insufficienti. Questa qualità del lavoro solleva interrogativi sul motivo per cui un governo, che si dichiara impegnato a difendere i diritti dei cittadini, non affronti il problema della precarietà. La riforma ha effettivamente peggiorato le condizioni lavorative, causando un aumento delle difficoltà per molti lavoratori, piuttosto che garantire loro una stabilità occupazionale duratura.

Il Jobs Act non ha portato a un miglioramento del mercato del lavoro. Anzi, i lavoratori vivono una situazione di maggiore vulnerabilità, favorendo i datori di lavoro, ma svantaggiando i dipendenti. Perciò, l’abrogazione della normativa renziana diventa necessaria, non solo per una questione di giustizia sociale, ma anche per correggere un sistema che ha dimostrato di non funzionare nel modo previsto.

La discriminazione nel mercato del lavoro: un problema irrisolto

Infine, la terza ragione per abrogare il Jobs Act è legata alla sua impostazione discriminatoria. La controriforma ha creato una divisione netta tra i lavoratori: quelli assunti prima della riforma e quelli assunti dopo. Questa disuguale applicazione delle normative porta alla creazione di una netta distinzione tra dipendenti di “serie A” e “serie B”, infrangendo diritti fondamentali e i principi di uguaglianza. Tale situazione non ha soltanto conseguenze legali, ma incide anche sul senso di giustizia all’interno del lavoro.

La discriminazione presente nel Jobs Act non trova né giustificazione economica né morale. Ogni individuo, indipendentemente dal proprio stato di assunzione, merita diritti simili e tutele efficaci. La riparazione di questa discrasia rappresenterebbe non solo un passo necessario verso una maggiore equità sociale, ma anche un modo per riconnettere il paese con la sua integrazione e coesione economica.

In una fase in cui è cruciale ritrovare il consenso e la fiducia della popolazione, liberarsi dagli echi delle politiche renziane diventa una svolta strategica per le forze progressiste. Queste dovrebbero impegnarsi a correggere le ingiustizie e ripartire con un piano chiaro per il futuro, puntando all’abolizione della legge se approvata nel referendum. La battaglia si gioca sulla protezione dei diritti dei lavoratori e sul stabilire un paradigma nuovo e più giusto per il mercato del lavoro.